martedì 1 settembre 2009

1. La DD si addice solo alle piccole comunità?

Critiche alla DD
Prima di passare ad illustrare i tratti salienti di un possibile modello DD, mi pare opportuno rispondere a due critiche ricorrenti che vengono mosse a questo sistema politico allo scopo di ingenerare l’impressione che si tratti di un’idea impossibile da realizzare e comunque perniciosa, sulla quale, dunque, è inutile parlare.
La prima critica sostiene che l’autogoverno del popolo non sia praticabile nei grandi Stati per incontestabili limiti di ordine fisico. “Che tutti decidano su tutto in società sempre più complesse come sono le società industriali moderne è materialmente impossibile” (BOBBIO 1991: 34).
La seconda critica è ancora più radicale e profonda anche se l’autogoverno del popolo fosse tecnicamente possibile, il popolo non saprebbe governare e, alla fine, ogni democrazia diretta tenderebbe a “diventare «amministrazione di notabili»” (WEBER 1999 I: 288).
Insomma, per una ragione o per l’altra, anche ai giorni nostri sarebbe “impossibile concepire la democrazia diretta” (LINZ 2006: 427). Sulla base di questi assunti, la democrazia diretta è ritenuta un’idea utopica, attraente per quanto si vuole, ma pressoché impossibile da realizzare, sia per limiti fisici (è matematicamente impossibile che un gran numero di persone possa esprimere la propria opinione su ogni questione di pubblico interesse), che per ragioni di principio (non è bene che siano le masse a decidere su questioni di pubblico interesse).
Il fatto è che la DD è innanzitutto un’idea e, come tutte le idee, chi ritenga che sia inattuabile la accantona, non ne parla più, pensa ad altro, ma chi invece ci crede la porta avanti, ne parla con gli amici, la vuol realizzare ad ogni costo. Nessuno vorrebbe un governo DD se fosse convinto che esso fosse un male o anche semplicemente se lo ritenesse una pura utopia. Se dunque noi siamo qui a parlare di DD è perché ci crediamo: crediamo che essa sia un bene per i più, e soprattutto crediamo che sia attuabile. Perciò, il nostro primo obiettivo dev’essere quello di sfatare i due miti che finora hanno impedito a questo modello di prendere forma.

1. La DD si addice solo alle piccole comunità?
Da quando Rousseau e altri pensatori vissuti fra il XVIII e il XIX secolo espressero la convinzione che non esistono le condizioni tecniche necessarie perché tutti i cittadini di un grande Stato possano partecipare effettivamente alla politica, quest’idea è stata sistematicamente ripetuta dai politologi fino ai giorni nostri, senza tenere nel debito conto che oggi le condizioni tecniche sono enormemente cambiate.
Un popolo, si dice, è costituito di svariati milioni di cittadini, che hanno idee diverse e non possono esprimerle tutti quanti, e tanto meno possono deliberare in modo corale e partecipe, perché non c’è il tempo materiale per farlo. “Nessuno può immaginare uno stato che possa essere governato attraverso il continuo appello al popolo” (BOBBIO 1991: 49). In sostanza, la DD è ritenuta un’idea utopica, attraente per quanto si vuole, ma pressoché impossibile da realizzare, se non altro per incontestabili limiti di ordine fisico. In questo caso, lo scetticismo circa la reale possibilità del popolo di esercitare il proprio potere sovrano è fondato essenzialmente su ragioni tecniche: è matematicamente impossibile che un gran numero di persone possa esprimere la propria opinione su una qualsiasi questione. Maggiore è il numero dei cittadini, minore è la possibilità che si possa realizzare un governo diretto.

1.1. I demoscettici
Ora, argomenta Montesquieu, “Poiché in uno Stato libero, qualunque individuo che si presume abbia lo spirito libero deve governarsi da se medesimo, bisognerebbe che il corpo del popolo avesse il potere legislativo. Ma siccome ciò è impossibile nei grandi Stati, e soggetto a molti inconvenienti nei piccoli, bisogna che il popolo faccia, per mezzo dei suoi rappresentanti, tutto quello che non può fare da sé” (Lo spirito delle leggi, XI, 6). Questo pensiero di Montesquieu sarà, più volte, ribadito nel corso dei secoli.
Secondo John Stuart Mill, essendo materialmente impossibile che tutti i cittadini di uno Stato prendano la parola in pubblico in merito all’ordine del giorno, perché non ce ne sarebbe il tempo materiale, ne consegue che solo una minoranza può discutere, mentre la maggioranza deve limitarsi a votare. Con ciò, il pensatore inglese non intende negare la validità della DD, ma vuole semplicemente affermare che questa forma di governo sarebbe possibile solo a condizione di frazionare uno Stato in tante piccole comunità indipendenti; sennonché questa evenienza è generalmente ritenuta altamente indesiderabile. In pratica perciò, Mill reputa inevitabile il ripiego alla DR: “Il tipo ideale di governo è solo quello rappresentativo poiché in ogni comunità che supera i limiti della piccola città ciascuno può partecipare solo ad una minima parte degli affari pubblici” (1997: 59).
Max Weber ritiene che la DD possa essere funzionale solo in casi del tutto particolari, ma che sia affatto impraticabile nelle nostre società numerose e complesse (1999). La democrazia diretta, concorda Kelsen, “date le dimensioni dello Stato moderno e la molteplicità dei compiti di esso, non rappresenta più una forma possibile di democrazia” (1995: 72). Anche Mises appare risoluto nel giudizio: “La democrazia diretta può essere realizzata solo su scala molto ridotta” (MISES 1990: 97). Per Linz, “è impossibile concepire la democrazia diretta” (2006: 427). Bobbio è sulla stessa linea: “Che tutti decidano su tutto in società sempre più complesse come sono le società industriali moderne è materialmente impossibile” (BOBBIO 1991: 34). Anche secondo Dahl, la popolazione di uno Stato è troppo grande “per permettere di realizzare pienamente l’ideale partecipativo” (1996: 20) e, tuttavia, non è prudente costituire stati così piccoli da permettere un governo DD, dal momento che nessun piccolo Stato potrebbe offrire condizioni ottimali di vita ai suoi cittadini. Dahl ritiene, infatti, che “oggi nessuna unità più piccola di una nazione o paese sia in grado di fornire le condizioni necessarie per realizzare un’alta qualità della vita, e che nessuna unità più grande di un paese possa essere governata democraticamente...” (1996: 23).
Che dire di fronte a questo autorevole coro di No? La risposta sembra essere scontata: la cosa migliore che possiamo fare è tenerci la democrazia che abbiamo. Insomma, non rimane che la DR.

1.2. I tempi sono cambiati
Bisogna tuttavia tener conto che la maggior parte dei pensatori che si sono dichiarati scettici nei confronti della DD hanno conseguito la loro maturità intellettuale prima della rivoluzione telematica. Perciò, ci si potrebbe chiedere: quanti hanno sostenuto la tesi che la DD fosse praticabile solo all’interno di piccole comunità, da Rousseau a Madison, da Hamilton a Constant, resterebbero fermi nella loro posizione se vivessero oggi, nell’era di Internet? Per poter rispondere a questo interrogativo ci conviene partire da quello che viene considerato il migliore esempio di DD della storia: il governo che si affermò nell’Atene di Pericle, in un’epoca in cui la gente si spostava a piedi o a dorso di cavallo, non c’erano telefoni e nemmeno network televisivi o telematici. Ebbene, il mondo dei pensatori moderni sopra citati non era molto diverso da quello in cui è vissuto Pericle.
Oggi abbiamo mezzi di trasporto che possono portarci da un capo all’altro dell’Italia in un tempo minore di quanto impiegava un antico ateniese a recarsi dalla periferia dell’Attica alla sede dell’assemblea cittadina. Inoltre, grazie al telefono e al telefax, possiamo comunicare in tempo reale con chiunque senza spostarci da casa. Possiamo anche contare su un’alfabetizzazione generalizzata e su un gran numero di mezzi di informazione, primi fra i quali la carta stampata e la tv. Ma questo è niente se consideriamo le possibilità che ci vengono offerte dalla tecnologia telematica e Internet, che hanno rivoluzionato il modo di incontrarsi e dialogare tra persone e di far circolare informazioni multimediali, indipendentemente dalla distanza.
Che l’attuale tecnologia digitale renda possibili nuove forme di democrazia su larga scala sembra assodato (PITTÈRI 2007: 124-47) e, pertanto, si può ritenere che se vivessero oggi, i «demoscettici» potrebbero non essere più tanto sicuri che la DD sia praticabile solo nelle piccole comunità. I limiti fisici per l’espletamento delle pratiche partecipative e deliberative popolari potrebbero essere superati dall’odierna tecnologia telematica (termine che risulta dalla sintesi di «telecomunicazioni» e «informatica»), che è un particolare sistema di comunicazione che, da qualche decennio, sta rivoluzionando le nostre vite.

1.3. Internet
Coniato nella prima metà degli anni ‘70, il termine Internet è una sorta di abbreviazione di Inter-Networking e indica la possibilità di collegare in un’unica rete i sistemi informatici di tutto il mondo attraverso la linea telefonica, con la differenza, rispetto al telefono tradizionale, che il segnale trasmesso non è più analogico, bensì digitale, ossia il linguaggio del computer.
Internet è rapidamente diventato uno strumento di massa ed è in costante espansione. Si calcola che, in Italia, nel 2001, venti milioni di utenti abbiano navigato nella Rete e quasi il 90% delle medie aziende abbia usato la via telematica per comunicare e si sia servita della posta elettronica in modo sistematico. Il risultato è che oggi è diffusa la consapevolezza di vivere in una civiltà assai più avanzata di ogni altra e di poter fare cose che in passato non erano neppure immaginabili.
Con questo nuovo strumento è ora possibile tradurre in bit tutti i segnali da noi percepibili (suoni, testi e immagini), i quali, viaggiando via etere o via cavo, possono raggiungere ciascun essere umano alla velocità della luce e offrire spazi pressoché infiniti alla libera discussione, che potrebbero proficuamente essere impiegati per cambiare profondamente il nostro modo di vivere in senso democratico, attraverso la facilitazione dei rapporti fra i cittadini di uno Stato.
Dagli albori della storia, l’informazione è stata controllata dalle classi dominanti ed ha proceduto in senso unidirezionale (pochi la producevano, i più la ricevevano). Ebbene, Internet inaugura una nuova era, l’era che consente al cittadino comune di “cercare in autonomia le informazioni che più lo interessano” (VACIAGO 2001: 116), ma anche di produrre egli stesso informazione. In analogia all’Età della pietra, oggi si parla di era del silicio (il materiale di cui è composto il chip del computer) o Età della pietra spirituale (Noolitico).
La tecnologia odierna è tale da consentire non solo la fruibilità dell’informazione e la costituzione di gruppi di discussione, ma anche lo svolgimento di attività, più o meno importanti, come effettuare pagamenti, fare la spesa, acquistare o vendere immobili, presentare la dichiarazione dei redditi, scaricare musica, film e altro ancora, stando comodamente seduti a casa propria. La nostra vita diventa più comoda. Per esempio, il fatto di poter “seguire da casa propria qualsiasi evento sportivo con costi finanziari e fisici enormemente minori rispetto a quelli imposti dall’obbligo di recarsi là dove l’evento avviene” (RODOTÀ 1997: 127) può condurre allo svuotamento degli stadi. Lo stesso apparato burocratico, che siamo abituati a vedere greve, pachidermico, lento e dispendioso, grazie anche alla tecnologia digitale, può divenire più funzionale, agile e molto meno pletorico e costoso. “È tecnicamente possibile consentire ai cittadini di accedere direttamente a banche dati locali e nazionali che diano loro informazioni sui bilanci dello Stato, di enti territoriali, di enti pubblici; su delibere e proposte, e sul loro stato di avanzamento; su gare d’appalto, appalti concessi, bandi di concorso e relativi svolgimenti, piani regolatori e concessioni edilizie, finanziamenti a imprese e associazioni [...]. Diventa possibile seguire l’iter di una decisione e controllare la correttezza di atti e procedure amministrative” (RODOTÀ 1999: 262). Teleacquisti, telebanca, telelavoro, teleconferenze, pay-tv, posta elettronica, e-shopping, gruppi di discussione virtuali, stanno modificando le nostre abitudini di vita e la nostra società.

1.4. Televisione
Anche la televisione ha abbracciato la tecnologia digitale e perciò è in grado di offrire un prodotto interattivo, che può integrarsi vantaggiosamente con Internet. Sebbene oggi la pay-tv offra prevalentemente programmi d’intrattenimento (film, eventi sportivi, varietà), nulla vieta che essa possa trasmettere anche programmi di più elevato livello culturale (rappresentazioni teatrali, concerti musicali, corsi scolastici e parascolastici) o mettere a disposizione dei cittadini i principali strumenti della DD, ossia spazi per dibattiti interattivi, scambi di opinione e di informazioni, banche dati di ogni tipo, forum. Il vantaggio della televisione, nei confronti di Internet, è la sua presenza capillare, pressoché in ogni casa e perfino in ogni stanza di ogni casa.

1.5. Telefonini
Per non parlare dei cosiddetti «telefonini», che hanno raggiunto un grado di evoluzione tale da consentire ad una persona di tenere in tasca e disporre in ogni momento e in qualsiasi luogo i servizi della televisione e di Internet insieme. Gli strumenti che la tecnologia odierna ci mette a disposizione sono tali che, se per ipotesi, Rousseau e Hamilton potessero rivivere in un’epoca diversa dalla loro, farebbero molto meno fatica ad adattarsi nell’Atene di Pericle che ai giorni nostri.

1.6. Cyberspazio
Internet, Televisione e Telefonini insieme formano il cosiddetto cyberspazio, un ambiente sociale virtuale, dove le persone possono comunicare senza essere fisicamente presenti: è la «comunicazione mediata dal computer» (CMC). Questa facilità di comunicare, di incontrare persone sconosciute e lontane, di unirsi a loro, creare rapporti, ma anche spezzarli, sono elementi che ci permettono di accostare le comunità virtuali a quelle tribali e richiamano alla memoria l’idea di villaggio. Di qui il termine «villaggio globale», che si riferisce a questo tipo di interazione fra persone che abitano a grandi distanze l’una dall’altra e si spostano da un luogo all’altro, come fanno i nomadi, pur restando seduti comodamente a casa.
Ormai si parla di piazze telematiche, agorà informatiche, comuni elettronici, città cablate, telecittà, megalopoli, ecumenopoli, per dire che il mondo intero è diventato così piccolo da poter essere percorso da un punto all’altro da messaggi multimediali e, grazie al cyberspazio, i cittadini di uno Stato grande come l’Italia o la Francia possono partecipare al dibattito politico assai più semplicemente di quanto non avvenisse nell’Atene del V secolo a.C..
Secondo Rodotà, oggi esistono le condizioni per quella che lui chiama Democrazia Continua, in cui “i cittadini potrebbero votare con la loro carta magnetica, rendendo le consultazioni elettorali più facili e frequenti” (1997: 36). Se il cittadino comune può inserirsi nel dibattito politico, “la stessa figura del Parlamento sembra destinata a sbiadire, sostituita da un sistema di governo che non ha più bisogno del luogo rappresentativo di un popolo che, in qualsiasi momento, può essere chiamato ad esprimersi attraverso strumenti come il referendum elettronico” (RODOTÀ 1997: 11). “La nostra – aggiunge Grossman – è la prima generazione di cittadini capaci di vedere, ascoltare e giudicare simultaneamente i loro leader, ma è anche la prima generazione di politici che hanno la possibilità di rivolgersi all’intera popolazione registrando immediatamente le reazioni dell’opinione pubblica” (1997: 8).
Nel cyberspazio si realizzano le condizioni tecniche atte a consentire lo svolgimento di assemblee popolari (non necessariamente di tutto il popolo) permanenti e la circolazione delle informazioni, che sono indispensabili per consentire a ciascuno di partecipare responsabilmente ai dibattiti politici e realizzare una sorta di referendum continuo. “I singoli cittadini hanno la possibilità di essere compiutamente informati su ogni tema in discussione, poiché esso sarà pienamente visibile in ogni dettaglio, così come le proposte e le controproposte di decisione […], potranno essere chiamati a esprimere, per via elettronica, il loro voto, anche frequentemente. Tanto più non essendoci alcuna difficoltà tecnica a emettere certificati elettorali elettronici, a aprire le urne a tutta la nazione al momento designato, a garantire riservatezza e correttezza del voto e infine a rendere noti i risultati all’istante” (CARLINI 1996: 201).
La rete apre prospettive di partecipazione politica popolare finora insospettate e alimenta la speranza di poter realizzare una Repubblica elettronica a livello planetario, una nuova Atene senza meteci e senza schiavi, dove tutti i cittadini (comprese le donne) partecipino attivamente al governo del paese. A giudizio di Thurow, “il villaggio elettronico condurrà inevitabilmente il mondo verso forme di democrazia più dirette e meno rappresentative. [… E, infatti,] perché mai gli elettori dovrebbero accettare che le proprie idee siano filtrate attraverso i propri rappresentanti eletti, se questa non è più una necessità materiale?” (1997: 95). Grossman parla di una «terza» forma di democrazia, dopo quella diretta degli antichi e quella rappresentativa dei moderni, nella quale “l’essere cittadini sarà importante quanto essere leader politici” (1997: 11).
Secondo Wainer Lusoli, l’e-democracy comprende “tre principali modelli autosufficienti” (la teledemocrazia, la comunità virtuale e la deliberazione online), che hanno in comune il fatto di estromettere i tradizionali agenti della rappresentanza politica e di favorire la partecipazione indifferenziata e paritetica fra i cittadini (2007: 107-8). La teledemocrazia fornisce al cittadino nuovi strumenti di partecipazione diretta, cioè senza intermediari. Le comunità virtuali si possono comporre indipendentemente da limiti territoriali e solo sulla base di interessi comuni, ma, poiché ciò comporta il rischio di perdere di vista l’interesse generale, sarebbe meglio creare dei nodi di collegamento regionali e nazionali, allo scopo di presiedere e seguire il processo deliberativo, che è il vero motore della DD.

1.7. Cyberspazio e democrazia
Ebbene, questa tecnologia ha la potenzialità di condizionare il modo di vivere, sia in senso democratico (attraverso l’erogazione di nuovi servizi per il popolo e la facilitazione dei rapporti fra cittadini di un medesimo Stato o di Stati diversi e lontani), sia in senso autoritario (qualora sia utilizzata come strumento di potere). Il futuro dell’umanità dipende, dunque, anche dal modo in cui sapremo sviluppare e gestire il cyberspazio.
Secondo Pierre Lévy, le reti telematiche possono favorire la partecipazione politica effettiva di tutti i cittadini. “L’uso socialmente più proficuo della comunicazione informatizzata è senza dubbio quello di fornire ai gruppi umani i mezzi per mettere in comune le proprie forze mentali al fine di costituire collettivi intelligenti e dar vita a una democrazia in tempo reale” (Lévy 1999: 74-5). “La democrazia rappresentativa ¬– incalza Lévy – può essere considerata come una soluzione tecnica alla difficoltà di coordinamento. Ma nel momento in cui si presentano soluzioni tecniche migliori, non c’è alcuna ragione per non prenderle seriamente in considerazione […]. L’ideale della democrazia non è l’elezione dei rappresentanti, ma la partecipazione della maggior parte del popolo alla vita della città” (1999: 77). Lévy delinea la possibilità di una “democrazia diretta in tempo reale nel cyberspazio” (1999: 78) con prospettive di partecipazione politica popolare finora insospettate.

1.8. Cyberspazio e Comunità Locale (CL)
Che l’attuale tecnologia digitale renda possibili nuove forme di democrazia su larga scala sembra assodato, e si può ritenere che se vivessero oggi, Rousseau e Hamilton potrebbero non essere più tanto sicuri che la DD sia praticabile solo nelle piccole comunità. Perfino Sartori, che, come sappiamo, è contrario alla DD, ammette che tecnologicamente la democrazia elettronica è fattibilissima (1993: 84). Ciò su cui potrebbero rimanere dubbi sono i limiti demografici di una singola agorà telematica, ossia sul numero massimo di persone che possono riunirsi in assemblea nella stessa agorà. Io penso ad una comunità compresa fra 5 e 15 mila abitanti, in pratica, una comunità municipale di media grandezza (più avanti la chiamerò Comunità Locale) e credo che una comunità siffatta possa consentire un valido e funzionale assemblearismo e costituire l’unità fondamentale di un sistema politico democratico che, attraverso i gradi intermedi delle entità regionali e statali, potrà abbracciare l’intero mondo.

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