martedì 1 settembre 2009

2. Il popolo sa autogovernarsi?

Il fatto di aver negato la possibilità fisica di attuare un governo DD avrebbe potuto esimere gli studiosi dall’entrare nel merito della seconda questione, e cioè se sia bene affidare il governo al popolo (a che servirebbe, dato che la DD è comunque irrealizzabile?). Tuttavia, se ci si fosse limitati a dichiarare solo l’impossibilità materiale di realizzare la DD, si avrebbe dovuto coerentemente vedere nella DR solo un ripiego, un male minore e, dunque, un sistema politico non-ideale, e questo non poteva essere tollerato da pensatori di fede DR, i quali hanno ritenuto opportuno esprimere la propria opinione anche su questo tema. Sarà bene ricordare che qui siamo di fronte ad una critica non più formale, come la precedente, ma di principio: non è bene che siano le masse a decidere su questioni di pubblico interesse.

2.1. Il popolo è inetto?
È inutile negarlo: il popolo non ha mai goduto e continua a non godere una buona stima presso gli studiosi. Il cittadino comune non è in grado di assumersi responsabilità di autogoverno. Questa convinzione accomuna una folta schiera di studiosi di ogni epoca. Infatti, Platone, Aristotele, quasi tutti i teorici medievali, Hegel, i marxisti, i nazionalisti, gli elitisti e la gran parte dei politologi contemporanei sono concordi nell’affermare che i cittadini costituiscono una massa informe, una folla capricciosa e volubile, una plebe vuota e dormiente, un gregge ottuso e incapace di perseguire la propria felicità in assenza di una guida, che lo conduca per mano, come fanno i genitori coi loro piccoli. Questa tesi trova conferma e sostegno nella dottrina ebraico-cristiana, che propone il modello del Dio-padre e asserisce che, come il gregge ha bisogno del pastore, la nave del nocchiero, il bambino del padre e della madre, così i cittadini non sono in grado di autogovernarsi e devono ricorrere a rappresentanti.
Secondo Hegel, il popolo non sa quel che vuole, è incapace di autogovernarsi e dev’essere governato. Per Schumpeter, gli elettori sono incapaci di formulare giudizi critici ragionevoli sulle questioni politiche e, perciò, è bene che essi non assumano responsabilità politiche: «democrazia» non significa che il popolo governi realmente, ma soltanto che esso abbia l’opportunità di scegliere gli uomini che dovranno governarlo, i quali, allo scopo di accaparrarsi i voti necessari alla loro elezione, entrano fra loro in competizione, come se fossero degli imprenditori che lottano per conquistarsi le preferenze dei consumatori (elitismo competitivo). Secondo Schumpeter, il compito del popolo è quello di «produrre un governo», non di governare, e democrazia significa soltanto che il popolo ha l’opportunità di accettare o rifiutare gli uomini che dovranno governarlo. Gli elettori “devono capire che, dal momento in cui hanno eletto qualcuno, l’azione politica spetta a lui, non a loro” (1994: 281). In fondo, insiste lo studioso, il popolo altro non è che una massa di bambini capricciosi e irresponsabili, che devono essere tenuti a bada per evitare che combinino guai. Esso “non solleva né decide nessun problema, ma i problemi da cui il suo destino dipende sono normalmente sollevati e decisi per lui” (SCHUMPETER 1994: 252). Gaetano Mosca conferma questo assunto, sottolineando il fatto che il popolo non conta nulla e che, a ben guardare, non sono gli elettori che eleggono il deputato, ma “ordinariamente è il deputato che si fa eleggere dagli elettori” (1982: 476). Per Sartori, l’unico potere che si può accordare al popolo è quello di scegliere chi lo governerà. E si potrebbe continuare.
Montesquieu aveva detto che il popolo “deve fare direttamente tutto quello che è in grado di fare bene; e quello che non è in grado di fare bene, è necessario che lo faccia per mezzo dei suoi ministri” (Spirito delle leggi II,2). In altri termini, il popolo dovrebbe delegare ad altri soltanto ciò che non può fare da solo. “Oggi – osserva Bobbio – noi diciamo il contrario. Il popolo non può fare niente da solo, ma deve rimettere tutto ai suoi «ministri», ovvero ai suoi rappresentanti” (1999: 375). Il popolo non può fare niente da solo! Questa è la posizione dominante nelle DR.
Sono minoritari gli studiosi disposti ad indicare il sistema DD come “il più consono alla dignità umana” (GINER 1998: 4), anche se poi, quasi immancabilmente, avvertono che si tratta di un modello “difficile da mettere in pratica” (GINER 1998: 71), oppure allargano le braccia in un gesto di desolazione e osservano, delusi, che “la vittoria finale della democrazia non è ancora giunta e neppure è vicina” (DAHL 2000: 154).
La conseguenza di queste prese di posizione è scontata: non c’è miglior governo della DR. Secondo Sergio Fabbrini, la DR è non solo necessaria, dal momento che “non vi é (né vi può essere) una democrazia senza una guida” (1999: 5), ma anche la migliore delle democrazie possibili, perché “quando il potere decisionale è diffuso, quando tutti sono responsabili della decisione governativa, allora è evidente che nessuno lo è” (1999: 9). Il governo rappresentativo è, secondo Luciano Canfora, “il solo sotto cui ci sia possibile oggi trovare un po’ di libertà e un po’ di pace” (2006: 86). Pur riconoscendo che la DR è in pericolo, Ralf Dahrendorf afferma che essa “non ha perso né la sua forza né il suo diritto” e sentenzia: “Vale la pena di rivitalizzarla e rafforzarla” (2005: 325). È diffusa, dunque, la convinzione sia dell’assoluta impossibilità di realizzare una democrazia diretta, sia della sua non convenienza. E allora, riproponiamo la domanda: può il cittadino comune assumersi responsabilità di autogoverno? Davvero il popolo è incapace di autogovernarsi?

2.2. Il popolo potrebbe farcela?
In verità, a queste autorevoli e massicce attestazioni di sfiducia nel popolo non si possono opporre che poche e deboli controargomentazioni.
Dall’unico, importante esempio storico di DD, quello dell’antica Atene, emerge che dei cittadini comuni hanno saputo autogovernarsi senza sfigurare nei confronti di altre, più consolidate, forme di governo. Quella di Atene però fu una DD anomala e, poiché dopo di questa non ve sono state altre, non ci è possibile sapere se, in una ipotetica DD compiuta, il cittadino comune sia in grado di autogovernarsi. Tuttavia, non esistono nemmeno prove contrarie.
Tutte le evidenze scientifiche ci dicono che la natura umana è una, che la struttura chimica e fisica dei nostri corpi è uguale per tutti, che le differenze biologiche fra gli individui sono contenute, mentre molto più rilevanti sono le differenze culturali, cioè quelle create ad arte dagli stessi uomini. A questo proposito, mi piace citare un’indovinata osservazione di Antony Appiah. “I nostri progenitori – osserva lo studioso – erano «umani» già in tempi remotissimi. Se un viaggiatore del tempo tornasse indietro di quarantamila anni, rapisse una neonata qualunque e la affidasse ad una normale famiglia newyorkese, a diciotto anni questa bambina sarebbe pronta per andare all’università. […] E sarebbe irriconoscibilmente diversa dalle sorelle e dai fratelli che ha lasciato indietro” (2007: VII). Anche se forse molti troveranno discutibile la posizione di Appiah, essa esprime lo stato attuale delle nostre conoscenze scientifiche: le differenze fra i singoli uomini sono legate più all’educazione che a fattori biologici.

2.2. Berlusconi insegna
Quando, il 26 gennaio 1994, il Cavaliere Silvio Berlusconi, 57 anni, lasciava la presidenza di Fininvest ed entrava in politica, era un cittadino come tanti, nel senso che non era un professionista della politica. “Infatti, esaminando il suo percorso personale e professionale, troviamo Berlusconi impegnato con successo in molteplici attività – imprenditore edile, creatore e leader della televisione commerciale italiana, editore, presidente di una delle più rinomate squadre di calcio – ma nessuna che possa definirsi propriamente politica, neppure in senso lato” (CAMPUS 2006: 135). A distanza di quindici anni, che lo hanno visto protagonista assoluto nella scena politica italiana, Berlusconi non solo ha risposto con successo alle aspettative degli elettori, ma il suo operato è stato tale da indurre qualcuno a definirlo «uomo di Stato» (GIANNINI 2008).
Senza voler entrare nel merito della questione, mi limito ad osservare che, se un cittadino come tanti può entrare per la prima volta in politica in età matura e interpretare un ruolo da primadonna, ciò prova che qualunque cittadino è potenzialmente un buon attore politico, a condizione che gli si consenta di esprimersi in tal senso. Certo, non siamo di fronte ad una prova inoppugnabile da addurre contro la tesi che l’uomo è incapace di autogovernarsi, dal momento che, come già detto, in nessun caso è stato realizzato un governo pienamente DD. Tuttavia, non esistono nemmeno prove contrarie.
Inoltre, il più delle volte, le decisioni politiche non implicano necessariamente competenze tecniche, ma intelligenza e buon senso, che sono distribuite nelle persone indipendentemente dall’istruzione. Possiamo, dunque, dar credito a Thomas Benedikter quando afferma: “Non c’è motivo per desumere che ci siano élite politiche di per sé più capaci di giudicare questioni politiche rispetto al cittadino comune” (2008: 99).

2.3. Le due alternative
Oggi, come ieri, ci sono sul campo due alternative possibili: o si crede nel cittadino comune e si scommette che, se opportunamente educato, egli possa farcela, oppure si stabilisce che esso è radicalmente inetto (o non degno) e, in questo caso, si deve reputare inutile una sua eventuale educazione alla democrazia. Nel primo caso, possiamo credere che abbiamo i mezzi sufficienti per procedere sulla strada che conduce alla DD, nel secondo caso, la massima aspirazione possibile per noi rimane la DR. Bisogna scegliere fra queste due vie. È solo una questione di fiducia, e insieme una scommessa.
Ma prima di scegliere sarà bene ponderare le conseguenze della scelta. Se scommettiamo sul popolo, non ci resta che predisporre un eccellente sistema educativo, atto a formare cittadini democratici, i quali, possiamo sperare, non faranno mancare il proprio contributo nell’organizzazione politica della società. Se scommettiamo contro il popolo non dobbiamo far nulla, possiamo lasciare le cose così come sono e tenerci la società duale che già abbiamo, dove solo una minoranza di cittadini decide e governa e tutti gli altri sono esclusi, come se gli uomini appartenessero a due nature distinte: una di serie A, l’altra di serie B. Ma è proprio questo il punto.
Sappiamo che non ci sono prove certe a giustificazione di una società duale naturale e tutto lascia credere che siamo noi i principali artefici delle nostre differenze. È questa la principale ragione che dovrebbe indurci a scommettere sul popolo: la constatazione che, se prescindiamo dallo status familiare, è impossibile riconoscere differenze di rango nei neonati, è impossibile cioè stabilire chi, fra due neonati scelti a caso, diventerà un cittadino di serie A e chi di serie B. Nei neonati prevale l’indifferenziazione: tutti si somigliano e sono, almeno sembrano, della stessa serie. Perché allora non concedere a tutti le stesse opportunità? Perché non tentare di farne dei cittadini democratici, capaci di pensare con la propria testa? Non c’è alcuna ragione valida per non farlo.
L’alternativa è non solo la perpetuazione della società duale e l’esclusione del popolo dalle decisioni di interesse generale, ma anche un enorme spreco di talenti e di capitale umano. Perché puntare solo sui figli di «buona» famiglia e non coltivare invece le potenzialità di ogni singolo cittadino? Perché rinunciare all’apporto di milioni di persone? Questo davvero non possiamo permettercelo, proprio oggi che l’umanità si trova di fronte a problemi che richiedono il massimo impegno da parte di tutti.
Poiché non vi sono ragioni valide per negare le pari opportunità a tutti, a mio giudizio, quanti scommettono contro il popolo e continuano a distinguere pregiudizialmente i cittadini in due classi e ad insistere sulla necessità della rappresentanza, danno adito al dubbio che siano in mala fede. E qui, per il momento, mi fermo.

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